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I TURKANA

Orgogliosi di vivere all’«inferno»

«Imigliori guerrieri dell’Africa orientale; eccezionalmente impavidi; con una fama di estremo e rapace eroismo»: così hanno definito i turkana gli amministratori coloniali del passato. I primi incontri non sono incoraggianti, scrive un missionario che da anni vive insieme a loro: sono «chiusi, un po’ rozzi e grossolani, privi delle grazie della società; impulsivi e attaccabrighe; fieramente indipendenti, orgogliosi, arroganti, ma anche gioiosi e felici; ispirano forti emozioni: chi lavora tra loro o li ama o li odia; spesso tutte e due le cose insieme». Ma è grazie a tale aggressività o reputazione di essere tali, che sono tanto numerosi e riescono a vivere in un ambiente lunare.

 

SEGUENDO UN BUE RIBELLE

Il nome turkana (*) non dice molto: forse deriva da aturkan (grotta, caverna), da cui ngaturkana: uomini delle caverne. Qualcosa in più si può ricavare dai loro scarsi miti delle origini. Inizialmente esisteva il gruppo etnico dei karamojong: 500 anni fa, questi emigrarono dall’Etiopia nel Sudan, per poi ripiegare verso sud, dividendosi in gruppi autonomi e prendendo nomi propri: jie, dodos, turkana, jiye, toposa, teso, donyiro, kuman. I vecchi raccontano che queste popolazioni «erano un tempo un solo territorio, un solo popolo, una sola famiglia».

Gli etnologi definiscono a grandi linee questi gruppi come «nilo-camiti » o «nilotici cuscitizzati». Di fatto, la loro lingua affonda le radici nell’intricato sottobosco nilotico, ma sangue e cultura hanno i colori dei popoli di lingua camitica (cuscita). Per quanto riguarda i turkana, un’antica leggenda narra che essi si chiamavano jie; ma un giorno si separarono da essi, seguendo le orme di un bue capriccioso che, fuggendo, si tirò dietro molta gente: da quel momento essa si chiamò turkana; avanzò verso sud e, sgomitando, assimilando o cacciando le popolazioni arrivate prima, diede il proprio nome alla terra occupata: Turkwen, terra dei turkana. Il contatto con altre popolazioni ha arricchito la formazione delle loro mandrie: ai soliti bovini hanno aggiunto capre, pecore, cammelli e asini.

 

HABITAT INFERNALE

Il Turkwen o, come viene chiamato dall’amministrazione statale, Distretto Turkana, misura oltre 61.000 kmq e si trova nella Great Rift Valley: una lunga fossa a circa 600 metri s.l.m., caratterizzata da pianure sabbiose, blocchi rocciosi di 300-400 metri e catene di colline e montagne di origine vulcanica alte fino a 1.600 metri.

La temperatura minima si ferma a 24° e la massima può raggiungere i 42° nei mesi di gennaio-marzo. Le precipitazioni sono scarse e imprevedibili, anche se i turkana continuano a dividere l’anno in akiporo (stagione delle piogge, aprile-agosto) e akamu (stagione secca, settembremarzo). Nel nord cade 100-300 mm di pioggia l’anno; nel sud 300-800; nel centro e nell’est non piove quasi mai. Turkwell e Kerio sono i fiumi principali; altri corsi d’acqua stagionali non sono altro che letti di sabbia, pietre e detriti. La vegetazione è quella tipica della savana: acacie spinose, cactus, sisal, palma dum, specie lungo i corsi d’acqua, e cespugli spinosi qua e là tra sassi e sabbia. In tale ambiente infernale, nulla è dato gratuitamente; tutto ciò che si ha, o si vuole avere, deve essere faticosamente conquistato e difeso, aggredito e vinto. Altrimenti si soccombe. Qui i turkana hanno sviluppato carattere e cultura, orgogliosi del proprio isolamento, accresciuto dalla fama di guerrieri spietati che si portano addosso.

Da sempre, infatti, essi compiono razzie di bestiame: fa parte del loro sistema economico, giustificato da un mito tramandato da una generazione all’altra: Dio ha dato ai loro antenati, e solo a loro, tutto il bestiame domestico esistente nel mondo; per cui, razziare il bestiame altrui non è pelle, abbellite da teorie di perline multicolori. Famosi sono i fabbri turkana: estraggono il ferro da una roccia speciale e modellano armi e utensili. Oltre alle classiche lance e frecce dei popoli nomadi, essi fabbricano il micidiale bracciale: infilato al polso e coperto da una sottile guarnizione di cuoio, sembra un ornamento; ma liberato da essa, svela il suo vero scopo: è un’arma che non lascia scampo. Caratteristici sono pure i loro bastoni da combattimento: sembrano comuni canne decorate; ma dovunque colpiscono le decorazioni lasciano il segno. Nei loro ornamenti, donne e uomini rivelano un vasto campionario d’inventiva, gusti, significati suggestivi e altro. Le fogge dei capelli sono totalmente differenti da quelle samburu; collane, orecchini, pendenti e altri ornamenti femminili distinguono le nubili dalle sposate e indicano differenti situazioni familiari: nascite e lutti, vedovanza e lontananza del marito. Oltre alla perforazione dell’orecchio, è praticata quella del labbro inferiore, per inserirvi un monile metallico. Armi, utensili, ornamenti e oggetti artigianali hanno per la gente un valore puramente pratico, senza escludere quello estetico; ma da quando i bianchi hanno cominciato ad apprezzarli come souvenir turistici, i turkana hanno fatto un balzo nell’adattamento alla «civiltà industriale».

 

SOCIETÀ DEL BESTIAME

L’intera etnia turkana è divisa in 12 clan, con usi e rituali propri, e 25 sezioni sparse in tutto il distretto, con regole esogamiche. Tutti i maschi sono divisi in due grandi gruppi: ngimoru (pietre) e ngirisae (leopardi), distinguibili da segni decorativi in occasione di feste. L’appartenenza è alternata tra padre e figli: se il padre è ngimoru, i figli saranno ngirisae e viceversa. Col matrimonio le donne entrano nel clan e gruppo del marito. Ma clan, sezioni e gruppi non rivestono particolare significato sul piano socio-economico, poiché non posseggono bestiame proprio. Cuore e centro del sistema sociale turkana è l’ekal, famiglia estesa: un nucleo indipendente, economicamente autosufficiente e geograficamente distinun crimine, ma significa semplicemente riprendersi ciò che è proprio per diritto divino e primordiale. Se a tale giustificazione si aggiunge il prestigio di uccidere uno o più nemici, ostentato con speciali decorazioni e cicatrici sul petto, si comprende come i turkana si siano guadagnati la fama di guerrieri coraggiosi e sanguinari; anche se negli ultimi anni si sono dati una calmata, sia per convinzione, sia perché le popolazioni circostanti si sono rifornite di armi da fuoco (vedi riquadro).

 

ADATTARSI O SPARIRE

Dote fondamentale dei turkana, modellata dalle difficoltà ambientali, è il grande spirito di adattamento. Pur conservando vari usi e costumi del gruppo originario karamojongjie (modi di vestire, decorazioni e fogge di capelli, rituali e tipi di alleanze), i turkana hanno abbandonato tante pratiche classiche dei popoli nilotici, come la circoncisione sia maschile che femminile; le classi di età, l’importanza dell’autorità degli anziani e della divisione clanica. Il rapporto con il bestiame, soprattutto, è essenzialmente pratico, ben lontano dalla simbiosi psicologicasacrale dei samburu.

Quando, per motivi di sopravvivenza, migrano nelle città o altri territori tribali, i turkana accettano di ripristinare la circoncisione o adottano le tradizioni del nuovo habitat. Unici tra i pastori nomadi, i turkana non si vergognano di «piegare la schiena» per zappare e coltivare la terra, appena le rare piogge ne offrono l’opportunità, né di avvantaggiarsi d’ogni cosa commestibile: uova, pesce, pollame e carne di animali selvatici, cibi rigorosamente tabù per le altre popolazioni pastorali. Fanno eccezione le carni di cane e iena. Poiché le difficoltà aguzzano il cervello, i turkana hanno imparato a usare tutte le risorse offerte da un ambiente ostile. Legno, pelli, cuoio, avorio, metalli, zucche, semi, ossa, corna, zoccoli, unghie, piume ecc…. nulla è buttato, ma trasformato in utensili, ornamenti e altri oggetti di artigianato. Solo la tessitura non è praticata, per mancanza di fibre vegetali. In compenso, le donne sono abili nel lavorare il cuoio, con cui confezionano caratteristiche sottane di to, formato da padre, moglie (o mogli), figlie non sposate e figli con relative mogli e prole; ma può essere estesa a parenti e affini. Il padre è padrone assoluto (ekapolon) del bestiame, che non sarà spartito tra i figli fino a quando egli è in vita. Nella vita quotidiana sono importanti i rapporti di vicinato: differenti ekal possono aggregarsi, formando un villaggio sparso, in una comune area di pascolo, per aiutarsi a vicenda nella ricerca di acqua, custodia del bestiame e assistenza reciproca in ogni eventualità. Nel vicinato si realizza l’organizzazione politica dei turkana, dando vita a un microcosmo di consigli di anziani, con potere decisionale circa la soluzione dei problemi che emergono dalla vita quotidiana. Tali consigli non sono stabili, poiché un ekapolon può emigrare dal villaggio in qualsiasi momento verso altre zone di pascolo e non incontrare più i vicini per tutta la vita. Altra importante struttura organizzativa è la «società del bestiame»: è un’alleanza tra uomini discendenti dallo stesso antenato, parenti, affini e amici, con l’impegno di procurare, dare o ricevere animali quando uno dei soci ha perduto il bestiame o si trova in qualche grave necessità, come il matrimonio.

 

MA QUANTO MI COSTI!

Più delle strutture, sono gli eventi della vita a ricoprire un ruolo importante nella vita turkana: iniziazione e matrimonio, nascita di un figlio e morte dell’ekapolon. Bambini e ragazzi hanno il compito di pascolare e difendere il bestiame dell’ekal fino al giorno dell’iniziazione (esapan). Questa avviene all’età di 15-20 anni, con un gruppo consistente di candidati, nella stagione umida, quando il cibo abbonda. Il rituale è ridotto all’osso: abolita la circoncisione, esso consiste nel «sacrificio dell’esapan»: a turno gli iniziandi devono uccidere un animale (toro o caprone) con un colpo di lancia preciso, per dimostrare la propria forza e abilità. Poi gli anziani li spalmano con il contenuto dello stomaco della vittima e spruzzano su di loro saliva e acqua, simbolo di vita e di benedizione. I rituali proseguono con festeggiamenti e abbuffate di carne. Infine ogni giovane si reca dal padrino che, dopo avergli trasmesso il bagaglio morale, le tradizioni dell’etnia e acconciato la capigliatura, gli consegna il necessario di un autentico turkana: lancia, clava, poggia-testa, braccialecoltello, anello, sandali nuovi. Ora il giovane è diventato un guerriero: deve respingere i nemici, condurre la mandria in pascoli lontani e partecipare alle razzie.

Verso i 30 anni, il giovane può sposarsi e così raggiunge un secondo grado di maturità. Ma è un processo lungo e complesso. Iniziato il corteggiamento e ottenuto il consenso della ragazza, in genere ancora adolescente, il giovane deve ottenere l’approvazione del padre. Se esso è positivo, il genitore si reca con gli anziani alla casa della famiglia della sposa e avvia il contratto matrimoniale.

È questo il punto cruciale, dove la «società del bestiame» si rivela provvidenziale. Il prezzo della sposa, infatti, può raggiungere i 40-50 capi di bovini e cammelli, 100-150 di pecore e capre, un discreto numero di asini e beni di uso immediato (coperte, tè, zucchero, tabacco). Domanda e offerta subiscono sconti durante la contrattazione; ma la somma rimane sempre alta; e non è scontato che il padre sia disposto a sborsarla, specie se vuole procurarsi un’altra moglie: da qui la necessità di rivolgersi a zii, affini e amici.

Raggiunto l’accordo tra le due famiglie sul prezzo da sborsare, lo sposo chiama alcuni amici e rapisce la ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente; ma il rapimento deve avvenire col maggiore baccano possibile: la ragazza grida e si divincola per mostrare l’attaccamento ai genitori; i rapitori devono fare apparire che si tratta di un bottino di razzia, tanto per non smentire la propria fama. A colpo fatto, gli anziani benedicono gli sposi, che cominciano a convivere. Riprendono le trattative tra le due famiglie per la consegna del bestiame, che generalmente viene fatta a rate. La prima deve essere la più consistente, perché i parenti della sposa acconsentano alla cerimonia definitiva: l’uccisione del bue. Con questa cerimonia viene sancita la legittimità del matrimonio a tutti gli effetti, anche se il pagamento delle altre rate durerà molti anni o tutta la vita.

 

 

RELIGIONE… INTERESSATA

I turkana hanno la certezza di un Dio chiamato Akuj (cielo): benevolo, onnipotente, unico (senza mogli e figli), onnisciente… ma è alquanto lontano. Presente al tempo delle origini, non si interessa troppo delle faccende umane, pur rimanendo sempre sorgente della vita e del destino di ogni essere. A volte Dio comunica, attraverso il sogno, in vista di necessità collettive, mediante uomini scelti, come l’emuron, personaggio fondamentale nella società turkana, che riveste il ruolo di sacerdote, mago, medico e divinatore. I turkana si avvicinano ad Akuj ed esprimono la loro dipendenza, seppure raramente, con preghiere e sacrifici, in caso di calamità collettive, malattia di anziani e altre circostanze dettate dalla tradizione. Si ha il «sacrificio per la pioggia», con l’uccisione di un bue in caso di siccità prolungata; si sacrifica un toro (o caprone) al rientro del bestiame dalle alture o per scongiurare la moria degli animali.

Oggetto della preghiera, guidata dagli anziani o dall’emuron, sono realtà concrete: pioggia, acqua, cibo, aumento di figli e bestiame, salute delle persone; ma anche pace, armonia, concordia tra gli anziani. Inoltre, l’universo turkana è popolato da entità benevoli o malevoli, da un gran numero di spiriti della natura e spiriti dei morti. La loro potenza è limitata, ma è sempre meglio tenerli a bada con una serie di rituali, formule di scongiuro, amuleti e talismani, piccoli gesti di rispetto: un pizzico di tabacco, libagioni di latte e acqua.

Infine, accanto all’azione di Akuj e degli spiriti, i turkana credono in realtà soprannaturali impersonali, controllabili dagli specialisti: maghi e indovini, possessori di poteri positivi o distruttivi. Ne esistono parecchi, ma il più popolare, stimato e temuto, è l’emuron, spesso molto ricco, grazie al contributo in bestiame che riceve per le sue prestazioni. Personaggio caratteristico, presente in quasi tutti i villaggi, è il «lanciatore dei sandali»: dalla posizione che tali arnesi assumono in volo e nella ricaduta, egli diagnostica le cause di un’anomalia e dà la risposta al problema che gli viene presentato.

(*) Cfr. anche: Achille Da Ros, Noi, i Turkana, Emi, Bologna, 1994.

 

 

 


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